Come ti sei avvicinato al mondo del football, ma soprattutto, come sei arrivato a diventare una figura storica dei Guelfi Firenze pur non avendo mai giocato?
Diciamo che mi sono avvicinato a questo sport un pò come tutti, io già giocavo a rugby nel Cus Firenze e soprattutto giocavo al Calcio Storico, però mi era sempre piaciuto il football americano e quindi nell ’83 decisi di avvincermi al mondo del football, negli Apaches. Ho giocato sempre in linea di difesa, pur giocando qualche campionato nel doppio ruolo linea d’attacco – linea di difesa per mancanza di alternative e sono stato anche un “all star” del campionato italiano. Come spesso succede, mentre giocavo mi sono avvicinato al mondo del “coaching” ed ho iniziato a dare una mano alle linee di difesa della prima giovanile degli Apaches; lì però mi basavo ancora quasi esclusivamente sulle mie esperienze, senza dedicarmi proprio alla tecnica vera e propria che è poi diventata fondamentale per me, molto più che la fisicità o altro, anche perché io per primo non sono mai stato troppo possente fisicamente.

Quindi sei arrivato ai Guelfi, già dalla loro fondazione, come un allenatore?
Esatto, ho iniziato subito come allenatore; la maggior parte dei giocatori ovviamente li conoscevo essendo magari ex Apaches, o proprio giocatori della giovanile degli Apaches, che quindi avevo già allenato; sicuramente all’inizio sono stato chiamato più per amicizia che per talento, ma passati i primi tempi magari un pò difficili, abbiamo ingranato e siamo sempre migliorati. Io sopratutto non sono mai stato troppo continuo, lasciando e ritornando parecchie volte, a causa magari degli impegni extra football, però sono contento di essere legato alla storia dei Guelfi e soprattutto di essere legato da sempre alla linea di difesa; chi ha fatto bene nel corso degli anni è stato allenato da me, anche se non mi prendo nessuna responsabilità: sono dell’idea che i coach contino il giusto, e se uno fa bene è merito suo e del talento che ha, non di chi lo allena.

Oltre alla tecnica, secondo te cosa è fondamentale avere per un giocatore per poter giocare bene?
Io sono un amante del college football, tanto che nemmeno guardo la NFL, e lì ad esempio, vuoi per la vasta scelta che hanno i coach, vuoi per il livello dei giocatori, uno deve essere un giocatore completo: voglia di giocare, costanza, forza fisica, fisicità e ovviamente talento, mentre secondo me per il nostro campionato ci vuole soprattutto testa e cuore; non serve essere un fenomeno atleticamente, perché per il livello del campionato Italiano anche chi ha voglia di fare ed ha il cuore per giocare può far bene e far bene alla sua squadra

Pensando quindi alla tua storia con i Guelfi, quali sono i ricordi cui tieni di più?
Probabilmente risulterò ripetitivo, ma le due finali vinte sono un ricordo bellissimo, ma pensandoci bene anche le partite perse sono un bel ricordo; essere arrivato al Super Bowl come allenatore è un traguardo importante e fino al kickoff anche la finale di Luglio 2019 contro i Seamen è un bellissimo ricordo, anche se poi tutto quello che poteva andare male è andato male, e ancora sento una grossa responsabilità per non essere riusciti a giocare bene come linea di difesa in quella partita: in quell’occasione avremmo dovuto giocare molto meglio.

Potendo scegliere fra tutti i giocatori che hai allenato e con cui hai giocato allora, chi prenderesti per fare il definitivo salto di qualità?
Non ti farò solo un nome perché ho allenato tantissimi giocatori che hanno fatto bene e che ci aiuterebbero, come Tubbini, Parronchi, Giorgi però sicuramente, come hanno già detto tutti, Benoni è probabilmente il più forte che ho mai allenato, e sicuramente dispiace che abbia lasciato troppo presto perché avrebbe fatto sicuramente la differenza, avendo ancora un’età adatta a giocare a football, soprattutto per un fuoriclasse come lui. Sono sicuro che però ci possono già essere giocatori a roster che possono farci fare il salto di qualità come ad esempio Francesco Camilli, con cui ho un bellissimo rapporto da quando vennero a Firenze a giocare il four helmets, Lorenzo Chiusi, altro importante elemento della nostro linea difensiva, oppure mi vengono in mente giocatori della giovanile che potranno aiutarci, come Poglietelli, già nel giro della prima squadra a soli 20 anni, Costanzi e Casati, penso anche anche a Crifò, Piccini o Scialdone, che è ancora molto giovane.

Com’è stato per te il passaggio da giocatore ad allenatore? Ti sei trovato bene fin da subito?
Come mi ha sempre detto un mio caro amico, un giocatore di football non smette mai di essere un giocatore, cambia solo ruolo; anche il fatto di diventare allenatore è stato soprattutto perché non potendo più giocare , amavo troppo il football per lasciarlo, quindi per me è stata una gioia poter allenare e poterlo continuare a fare nel corso degli anni, grazie sia ai Guelfi che magari a persone che mi hanno sempre cercato e voluto e con cui ho legato molto anche oltre al campo di gioco, come ad esempio Leonardo Gabriele (“Zio”, storica figura del football americano fiorentino e dei Guelfi, e membro dell’odierno coaching staff) con cui ho sempre lavorato bene insieme e che addirittura è stato il mio testimone di nozze, per farvi capire quanto questo sport possa legare le persone.

Secondo te cosa manca in particolare al football italiano per poter salire di livello?
La cosa che più manca è la visibilità: già solo il passare o no dalle televisioni è fondamentale per il nostro sport, anche solo per i ragazzini che potrebbero vedere la partita, dato che comunque il football americano in Italia è ancora uno sport “di nicchia”.

Un saluto a tutta la famiglia Guelfi! 🤟🏻